Vincitore di ben sette David
di Donatello, Lo chiamavano Jeeg Robot di
Gabriele Mainetti, si presenta agli occhi di critica e pubblico, come una vera
e propria novità nella cinematografia italiana.
La pellicola stupisce perché
sdogana il filone classico dello stereotipato film super-eroistico, fortemente
caratterizzato da scene d’azione, effetti speciali, conflitto tra due
antagonisti ecc… delineando un modello e un genere del tutto nuovo,
contestualizzandolo all’interno del nostro Paese.
Spesso infatti i film dei
supereroi (e i personaggi) appaiono piatti, privi di un vero e proprio spessore
che ne delinea la loro originalità, così come succede spesso per le situazioni
in cui si imbattono, spesso ricorrenti e standardizzate. Gabriele Mainetti si
distanzia totalmente da questo modo di fare cinema, ironizzando proprio
attraverso l’azione dei suoi personaggi, il cinecomic americano e tutto ciò che
gli ruota intorno, senza mancare di fare del citazionismo schietto.
La prova evidente è nelle
parole dell’antagonista, Lo Zingaro, che alla scoperta dei superpoteri del suo
nemico, esordisce dicendo:
- T’ha mozzicato un ragno? Un pipistrello? Sei caduto
da un altro pianeta? -
Il riferimento metatestuale
più rilevante è però la presenza del manga giapponese di “Jeeg Robot”
riproposto come paladino di Alessia, una giovane ragazza che ha subìto violenze
fisiche e psicologiche e che si rifugia nelle sue fantasie aspettando che Jeeg
faccia finalmente giustizia in un mondo governato da orrore e oscurità.
Oltre alla dimensione
fumettistica, il film contiene numerosi riferimenti alla Roma da “romanzo
criminale” che però qua manca totalmente di una vera e propria drammaticità, in
quanto il regista ci fa entrare nel mondo della criminalità organizzata
mantenendo sempre un occhio umoristico.
Lo stesso Zingaro, che
dovrebbe essere il cattivo per eccellenza, non corrisponde ai canoni del leader
classico, ma si presenta come un eccentrico personaggio, sociopatico e spietato
che non agisce in funzione di un gruppo di criminali, ma ha solo sete di
arrivismo, disposto a sacrificare tutto e tutti per essere riconosciuto.
Il suo modo di agire
rispecchia i canoni “televisivi” e agisce come se fosse il mondo fosse un
palcoscenico nel quale vuole affermarsi come protagonista; la sua malvagità
risiede infatti in un narcisismo estremo che lo porta ad essere completamente
privo di empatia.
Altra caratteristica atipica
del cinecomic standard sono le ambientazioni: in genere, la città in cui si
svolge il conflitto eroe/antieroe è fittizia (prendiamo ad esempio Gotham City
di Batman) ed essa serve soltanto come “modello” di metropoli usuale in cui
mettere in scena il conflitto Bene/Male, di conseguenza anche il paesaggio e
gli spazi in cui si svolgono le azioni risultano essere essenzialmente
fumettistiche e di difficile immedesimazione dello spettatore; in Lo chiamavano Jeeg Robot invece ci
ritroviamo immersi in degli ambienti del tutto reali, in cui possiamo
riconoscerci, pur essendoci lo straniamento messo in atto dal film stesso.
Non solo ma vengono messe in
luce anche tutte le problematiche ad essa connesse, come la criminalità
organizzata, il degrado delle periferie ecc… nulla insomma che faccia risultare
la città come mero sfondo dell’azione.
Il Male che deve essere
combattuto è interno alla città stessa e non si configura come un’entità altra
antropomorfa.
Gli stessi eroe e antagonista
inizialmente sono dalla stessa parte e provengono dalla stessa condizione
sociale di emarginati, non solo ma entrambi acquisiscono i poteri nello stesso
modo.
Inoltre Enzo (Jeeg) non vuole
lottare per “salvare il mondo”, anzi, agisce solo per fini egoistici sfruttando
le proprie abilità di “super”. Solo successivamente, in seguito al legame
affettuoso creatosi con Alessia, deciderà di agire per uno scopo alto. Enzo
diventa supereroe non per scelta, ma per caso, senza che lo desideri in nessun
modo; viene meno la corrispondenza superpoteri = superiorità morale, tanto più
che inizialmente Enzo è caratterizzato per una forte misantropia e odio della
società.
In ultima istanza, la
riflessione scaturita da questo film, sta nella capacità di “riciclo” dell’immaginario
del nostro tempo, in cui l’unico modo per fare fronte alle difficoltà del
presente, è quello di esorcizzare la paura attraverso la dimensione e
rappresentazione fantastica.
Eleonora Giovannini ©