domenica 11 giugno 2017

Wonder Woman: girl power a Hollywood

Uscito nelle sale cinematografiche lo scorso 1° giugno, Wonder Woman è stato il Cinecomic DC che ha incassato di più al botteghino nel giro di una settimana.
Il motivo di tale successo è dovuto sicuramente al fatto che Diana (Gal Gadot), la splendida amazzone, riesce a spiazzare tutti non solo con le sue doti da abile guerriera, ma soprattutto per la sua grande umanità. Ma andiamo per gradi.
Il personaggio di Wonder Woman mancava decisamente da decadi sul grande schermo, la DC (ma in generale le case di produzione dei film ispirati ai supereroi dei fumetti), ha voluto puntare sempre su eroi maschili, coraggiosi e intrepidi, dove le donne rimanevano un po’ nella loro ombra. Visti gli incassi al botteghino, direi che questa formula non sempre ha funzionato se consideriamo le ultime pellicole uscite di recente, come Suicide Squad e Batman Vs Superman.
Wonder Woman è la dimostrazione perfetta di cosa voglia il pubblico in un Cinecomic: combattimenti, forza fisica, certo, ma anche pietas, dolcezza e compassione. Tutte caratteristiche che la nostra eroina possiede grandemente.

Sicuramente in passato, questo personaggio è stato assente nelle sale cinematografiche perché l’industria stessa aveva paura che potesse esserci un personaggio femminile così potente, una donna che era capace di essere violenta e seducente allo stesso tempo. Si aveva paura del femminismo in un universo prettamente governato prettamente da eroi maschili, uomini forti il cui compito spesso era quello di salvare la donna, piuttosto che schierarsi con essa. Adesso possiamo certamente dire che le cose sono cambiate, i tempi sono maturi, e finalmente anche Wonder Woman ha avuto lo spazio che si meritava.

L’ho trovata un’eroina decisamente positiva, ironica, con le sue debolezze, certo, ma che comunque ha saputo distinguersi oltre la bellezza esteriore; ho apprezzato molto il suo spirito pacifista, forse a volte troppo ingenua, ma pronta a lottare per uno scopo “alto” pur di salvare i più deboli.
Il contesto della prima guerra mondiale è stato, a mio parere, perfettamente costruito e i fatti di fantasia si inseriscono perfettamente in quel contesto storico senza risultare solo semplice sfondo per i combattimenti tra “buono e cattivo”, come in realtà spesso succede negli altri Cinecomic.

Di sicuro il merito di tanto successo è dovuto alla regista Patty Jenkis, non a caso è stata una donna a dirigere questo film, e il girl power è infatti il suo l’elemento chiave.
Lei stessa in molte interviste ha dichiarato che il modo di combattere di Wonder Woman e delle amazzoni in generale, differisce molto dallo stile dei supereroi; non combattono come degli uomini e per la regista era importante che questo fosse mostrato al pubblico. Oltre a usare delle capacità particolari, attaccano come se fossero una squadra, usando delle strategie che vanno oltre ai semplici “super pugni” a cui siamo sempre stati abituati. Le amazzoni sono un vero e proprio “team work”.

Concludo dicendo che pur rimando un Cinecomic classico, con una trama e una morale semplice (attenzione, semplice, non banale), è allo stesso tempo divertente, romantico ed eccitante. Insomma, assolutamente da vedere!



Eleonora Giovannini



venerdì 28 aprile 2017

Il fenomeno di Thirteen Reasons Why

La serie tv “Thirteen reasons why”, sta letteralmente spopolando sia in Italia che all’estero; è infatti diventata un cult a soli pochi giorni dall’uscita sulla ormai famosa piattaforma streaming Netflix. Ho cercato, quindi, di analizzarla per capire cosa ci fosse dietro ad un tale successo.

Tratta dall’omonimo romanzo del 2007 di Jay Asher, è incentrata sulle drammatiche vicende di alcuni episodi di bullismo, avvenute tra le mura scolastiche, nei confronti dell’adolescente Hannah Backer.
Premettendo che non ho avuto occasione di leggere il romanzo, mi esprimerò soltanto sul telefilm.

Quello che colpisce subito, risiede principalmente sulla trama iniziale con cui si aprono le vicende: Hannah Backer, di soli 17 anni, si è tolta la vita. Già questo è un interessante imput per invogliare il telespettatore a proseguire la serie e cercando di scoprire, episodio per episodio, i motivi per cui la protagonista sia arrivata a compiere un gesto così forte; non solo, ma quello che in realtà più cattura lo spettatore, sta nel fatto che Hannah ha lasciato 13 cassette, in cui lei stessa spiega le ragioni della propria drammatica scelta. Queste cassette sono destinate a tredici dei suoi compagni di liceo, i quali, una volta ascoltate tutte, dovranno passarle alla persona successiva: tutti coloro che sono dentro le cassette, sono responsabili della morte di Hannah.

Tredici episodi per tredici cassette, nei quali saremo completamente immersi grazie alla voce narrante di Hannah e ai flashback; una serie tv che ci lascia con la suspance fino alla fine senza risparmiarsi niente. Ognuno dei personaggi presenti ha delle caratteristiche precise, pregi e difetti, e tutti vengono sviscerati fino in fondo, facendoci provare a vedere le cose dal punto di vista di ciascuno (non solo quello di Hannah). Vittime e carnefici.
Nel complesso questa serie non può essere considerata un capolavoro, in quanto la regia non spicca per particolarità importanti. Tuttavia un prodotto di fattura cinematografica/televisiva/letteraria/musicale deve essere sia  giudicato da un punto di vista oggettivo ma anche soggettivo, quello che conta sono le emozioni che ci suscita guardandolo.
Penso che “Thirteen reasons why” abbia lasciato in chi l’ha apprezzato, qualcosa nel profondo.
Perché certe scene, certi dialoghi, certe situazioni, colpiscono e fanno male dentro, tanto da non riuscire a non pensarci per giorni una volta che si è finito. Molti l’hanno definita una coltellata allo stomaco. E questo è lo scopo che i registi, i produttori e gli sceneggiatori si sono prefissati: cercare di raccontare una storia che riguarda tutti noi, perché anche noi abbiamo vissuto quelle situazioni, nel modo più realistico possibile, e farci mettere nei panni della persona che sta dall'altra parte, quando l'abbiamo attaccata non per forza fisicamente ma anche solo verbalmente, psicologicamente.
“Thirteen reasons why” vuole farci parlare dell'argomento. A tutti. Dal ragazzo bullizzato al bullo. Dal genitore al professore.

Eleonora Giovannini





mercoledì 1 febbraio 2017

La La Land, quando il cinema diventa arte

La La Land è stato decisamente il film più atteso di questo mese, complice sicuramente il fatto di aver vinto ben 7 Golden Globe (su sette candidature).
Capolavoro annunciato sia dalla critica che dal pubblico, è sbarcato nei cinema italiani lo scorso 26 gennaio, con l’intento di conquistare anche il nostro Paese.
A sentire i pareri di chi l’ha visto, sembrerebbe che ci sia riuscito senza il minimo dubbio, anche se non sono mancati commenti negativi a riguardo. Molti lo hanno criticato perché manca di originalità e risulta essere troppo citazionista, poiché nella pellicola sono stati inseriti diversi richiami a musical d’autore che hanno fatto la storia. Un film troppo ambizioso quindi?
Non solo, oltre a ciò è stato detto che La La Land non si è meritato tutte le candidature per cui è in lizza nei prossimi Academy Awards (ben 14 candidature!), anche perché dal punto di vista della trama non spicca per essere un film che saprebbe distinguersi come cult.

Andiamo dunque per gradi.
Sicuramente la pellicola è un ottimo prodotto, la fotografia è qualcosa di sublime; paesaggi mozzafiato, scene dal sapore onirico, colori sgargianti... niente su cui discutere. Lo stesso senz’altro vale per la colonna sonora e la regia che fa del piano sequenza il proprio cavallo di battaglia; per non parlare della bravura e della sintonia degli attori (Emma Stone e Ryan Gosling) che sanno coinvolgere lo spettatore come non mai.
La trama, è vero, non spicca per originalità, ma diciamocela tutta, è pur sempre un musical e un musical, per quanto bello possa essere o originale, è pur sempre un musical e la storia deve essere costruita in modo tale che faccia volutamente leva sul lato sentimentale del pubblico… anzi a dirla tutta il finale penso che sia qualcosa di terribilmente bello, di sicuro non conforme ai soliti “happy ending” alla Grease o ad altri musical hollywoodiani degli anni ‘50.

Il film si ispira, come anticipato in precedenza, ai musical degli anni ‘40 e non solo, più che citazionista in senso negativo del termine, è un film che vuole omaggiare quel tipo di cinema; non a caso riprende molte delle scene che in essi erano racchiuse e le confeziona in un prodotto magico. Tutte queste “citazioni” risultano comunque essere armoniche e credibili, anzi riescono ad acquisire una propria identità.

La storia si svolge ai giorni nostri, anche se questa impressione ci è data solo da alcuni richiami bruschi alla realtà  (come lo squillo di un telefonino) che si intervallano tra una canzone e l’altra, altrimenti il sapore che si respira è quello di stare osservando la storia di due persone accaduta in un tempo non ben definito; moderno ma nello stesso momento vintage, dal sapore retrò, tipico degli anni cui la pellicola fa riferimento.
L’unica pecca che son riuscita a trovargli sta forse a livello di sceneggiatura; senza fare spoiler, sono dell’idea che le vicende dei protagonisti, verso la fine del film, avrebbero dovute essere state affrontate più da vicino, che fosse stato chiarito meglio il rapporto tra i due spiegando in maniera più plausibile le ragioni di determinate scelte (se avete visto il film, capirete).


Per il resto, credo che La La Land meriti senz’altro di essere visto, sia che siate amanti del musical, sia che non lo siate.
E’ un vero e proprio incontro tra spettatore e cinema, o meglio, con l’essenza del cinema. Una pellicola che tocca vette altissime di estetica e si fa apprezzare senz’altro per lo stile, ricercato e mai banale. Un film che non annoia nonostante le due ore di durata e che vi farà uscire dalla sala letteralmente con le lacrime agli occhi!
Se valga 14 candidature sta a voi deciderlo secondo il vostro gusto personale, ma a prescindere da questo, penso che se un film finisce per essere una gioia per gli occhi e per il cuore, è senza dubbio un film ben riuscito.


Eleonora Giovannini





lunedì 23 gennaio 2017

Una serie (Netflix) di sfortunati eventi


Ormai è un dato di fatto: le serie tv targate Netflix non finiscono mai di stupire! Avevamo già avuto un assaggio lo scorso anno, quando “Stranger Things” è diventato nel giro di qualche mese un vero e proprio telefilm cult, conquistando il cuore di grandi e piccini.
Questa volta Netflix ci riprova, riuscendoci perfettamente, con un’altra serie affascinante e coinvolgente come non mai; tratta dall’omonimo romanzo di Lemony Snicket (pseudonimo di Daniel Hadler), sto parlando di “Una serie di sfortunati eventi”, una collana di brevi romanzi (quattordici in totale) di cui sono protagonisti tre giovani fratelli, Violet, Klaus e Sunny, rimasti improvvisamente orfani e casualmente affidati ad un losco individuo che si fa chiamare “Conte Olaf”, attore di dubbia bravura e abile furfante, il quale cercherà con ogni mezzo possibile, di mettere le mani sulla cospicua eredità dei tre fratelli, lasciatagli dai defunti genitori.

La serie si caratterizza per uno stile che sa conquistare subito visivamente lo spettatore; i colori e gli spazi ben definiti e simmetrici, ricordano un po’ la regia di Wes Anderson, ma riescono ad acquisire una propria identità.
Le vicende seguono in modo pedissequo i libri, infatti, ogni puntata è divisa in due parti e ognuna di essa non fa altro che raccontare quello che succede in ciascun libro (un libro per due puntate). Finora sono uscite otto puntate che riguardano rispettivamente le storie narrate nei primi quattro libri.
Il telefilm si distingue inoltre per una spiccata ironia, basata molto spesso sul no-sense ma che è in grado di risultare perfettamente credibile con il senso generale della storia e le avventure dei protagonisti. Gli stessi, sono qui rappresentati in modo molto caricaturale ma la loro psicologia risulta essere ben strutturata.

Quello che colpisce di questa serie tv, sono sicuramente i ragazzini, con una intelligenza decisamente spiccata rispetto alla loro età (anche la sorellina più piccola, Sunny, che ha solo pochi mesi di vita, risulta essere una spanna sopra agli adulti). I “grandi” sono qui descritti come persone totalmente incapaci, facilmente ingannabili e privi di senso della realtà. Tutte queste caratteristiche sanno inserirsi in modo coerente nella narrazione, dando vita a dei bellissimi momenti comici.
“Una serie di sfortunati eventi” infatti mette proprio in luce il rapporto del mondo dei più piccoli con quello degli adulti, incapaci il più delle volte di comprendere le ragioni dei bambini, troppo spesso considerati “ingenui” e “innocenti”.

Il genere è essenzialmente quello che si può definire “dark comedy”, poiché i fatti narrati, benché siano intrisi di tragicità, vengono affrontati in chiave comica, alleviando il peso che avrebbe avuto la trama di per sé. Anche la sigla, che anticipa le terribili avventure dei fratelli Baudelaire, risulta essere comunque leggera e, a tratti, quasi divertente.

La serie è certamente studiata per un pubblico giovane e ciò lo si evince dal modo in cui ogni puntata è strutturata e da come vengono dipinti i personaggi; lo stesso Conte Olaf (interpretato dal magistrale Neil Patrick Harris, conosciuto principalmente per il ruolo di Barney nella sitcom “How I Met Your Mother”) che è il “cattivo” dell’intera serie, risulta essere comunque un personaggio un po’ agli antipodi rispetto al classico antagonista, perché spesso e volentieri compie delle azioni al limite della comicità.

Quello che secondo me manca, forse, a questo telefilm, è un po’ più di ritmo; le puntate, pur essendo ben strutturate dal punto di vista della sceneggiatura e della trama, a volte risultano essere ripetitive e finiscono con l’avere un finale scontato, “già visto”. Ciononostante rimane un prodotto degno di essere fruito e comunque ottimo, soprattutto perché il finale lascia aperte infinite possibilità di interpretazione e arriveremo alla fine con un sacco di interrogativi (ma per questo non vi preoccupate, perché Netflix ha già annunciato che ci sarà una seconda stagione!).
Insomma, “Una serie di sfortunati eventi” vi piacerà sia se siete appassionati ai libri, sia se non li avete letti: è un telefilm che almeno una visione se la merita in ogni caso!
Eleonora Giovannini