giovedì 23 aprile 2015

This must be the place

Scritto e diretto interamente da Paolo Sorrentino, "This must be the place" è senza dubbio uno di quei film da sfoggiare fuori dal nostro Paese, una sorta di opera d'arte made in Italy da far invidia ai grandi autori del cinema hollywoodiano.
Uscito nel 2011, è il primo film di Sorrentino in lingua inglese ed esportato oltre oceano; presentato al Festival di Cannes lo stesso anno, ha inoltre vinto ben sei David di Donatello.

Il protagonista, Cheyenne, è interpretato da uno straordinario Sean Penn, mentre la colonna sonora è completamente ad opera del gruppo Talking Heads.
Il film stesso infatti, vuole essere una sorta di tributo ad una loro canzone, dal titolo omonimo "This must be the place"; questo proprio perché, essendo un road movie, è la storia non solo di un viaggio, ma di una ricerca del "posto ideale" in cui vivere. Con posto però non si intende necessariamente un luogo fisico, quanto piuttosto un luogo dentro noi stessi, un modo di essere che ci appartiene, che abbiamo riscoperto se non addirittura scoperto.
Tutta la pellicola è incentrata sulla presa di coscienza del protagonista, sulla sua ennesima formazione personale nonostante sia comunque in un'età avanzata; a parer mio questo aspetto è molto interessante, dal momento che ci fa capire che non è l'età che ti rende più maturo o responsabile, anzi, ma che c'è sempre altro da scoprire per scoprirsi a nostra volta. Quel tassello mancante del nostro puzzle.

Cheyenne è un ormai famoso cantante in pensione, che vive in una sorta di costante apatia, di depressione tale da portarlo a riflettere continuamente sul proprio passato, a pentirsi del proprio percorso di artista. E' anche per questo motivo, forse, che continua a vestirsi nello stesso modo di quando si esibiva nei concerti.
Il protagonista è stato volutamente truccato nello stesso modo in cui era solito acconciarsi Robert Smith, il cantante del gruppo musicale The Cure; prendendo questa figura come riferimento, e di conseguenza anche il contesto storico/culturale in cui ebbe maggior successo, Sorrentino ha voluto mostrarci che l'isolamento mentale in cui Cheyenne vive, è anche dovuto al grande consumo di droghe pesanti che si verificò tra anni '70 e '80. Tuttavia, la cosa interessante del protagonista, è che nonostante spesso ci dia l'impressione che sia assente, è al contrario lucidissimo, tanto da divenire nel corso del film un vero e proprio mentore per tutti coloro che si imbatteranno in lui durante il suo viaggio.
Questa sua caratteristica potrebbe far sembrare agli occhi del pubblico che il film sia lento e pesante, in realtà è sì lento, ma in senso positivo, direi che l'aggettivo che meglio gli si addice è calmo; in esso respiriamo una notevole essenza filosofica.
Nessuna scena è inutile, ognuna di esse serve per arricchire Cheyenne di una nuova visione dell'esistenza, è un continuo scambio di dare e avere, ed ogni comparsa, anche la più insignificante, è importantissima. Niente è lasciato al caso.

Un altro aspetto che ho amato di questo film, è stato vedere com'è stato trattato il rapporto tra il protagonista e la moglie. Che dire, in modo del tutto paradossale, si respira veramente un legame profondo tra queste due persone, sono una l'opposto dell'altro, eppure entrambi sanno completarsi in maniera perfetta.
Due ingranaggi che hanno bisogno l'uno dell'altro per continuare a funzionare.

E' un film che vi stupirà come non mai, portandovi a riflettere su quanto sia importante agire con empatia, pensare sempre a quanto sia necessario e giusto mettersi nei panni dell'altro per arrivare a capire determinate cose. Come vedrete, questa, è la vendetta migliore possibile.
A tal proposito vi dico subito che ho volutamente evitato di parlare di un'altra tematica altrettanto importante, ovvero il motivo per cui Cheyenne decide di partire per questo tortuoso viaggio; credo che sia bello se, come lui, siate curiosi di scoprirlo, imbattendovi in esso con terribile stupore.


Eleonora Giovannini ©




 


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